Baci che non si possono dimenticare

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Scritto da: stefania

Non so, le coincidenze non mi hanno mai convinta. O meglio, non le ho mai prese in considerazione come argomento meritevole di attenzioni o riguardi particolari. Mi sono sempre sembrate parole all’interno di qualche fatto narrato. Niente più. Nulla cui dare importanza, dedicare del pensiero. Credo dipenda anche dal fatto che sono sempre molto protratta al dopo, nel senso di quello che verrà dopo, che devo fare dopo, che accadrà da qui a qualche ora, fra qualche giorno. Difficilmente mi arrovello e analizzo con attenzione quello che è stato. Perché ormai è stato, appunto, e quindi è di per sé immodificabile e irrimediabile.
Io ho sempre lo sguardo volto avanti. Giusto o sbagliato che sia. Funziono così.
Però sulle coincidenze mi ritrovo in parte a ricredermi. Succede da qualche giorno. Per venire al sodo conviene che io provi a raccontare i fatti accaduti qualche giorno fa. Meglio, la sequenza di quei fatti. Sarà più semplice comprendere perché mi arrovello nelle coincidenze e perché ritengo riduttivo ricondurre quanto è successo al rango di fatalità.Coincidenze
Come ogni mattina prendo la macchina è me ne vado verso gli impegni della giornata. Avevo una trasferta fuori Verona quindi lasciai casa sul presto. Dovevo passare dall’ufficio per recuperare alcuni documenti e spedire un paio di mail. La destinazione ultima era il comune di Chioggia, e siccome era di strada anche la pasticceria di famiglia avevo già messo in conto che mi sarei fatta lì un buon caffè. Facendo un po’ di conti sarei dovuta arrivare in pasticceria per le 7.30, dieci minuti di caffè, giornale e saluti, poi autostrada in direzione laguna, l’area ibrida tra terra e mare che delimita l’altra estremità del Veneto.
Tutto pianificato. Come sempre. Invece, ecco il primo intoppo: occhiali da sole rimasti sul divano in soggiorno quando ho svuotato il contenuto dall’abituale borsa per spostarlo nell’altra, quella più utile alla giornata e capace di contenere cartellina, documenti e pc. Mi seccava molto ma dovevo fare dietro front. Senza occhiali, con il sole o anche solo la luce limpida del giorno che si annunciava, non potevo guidare tranquillamente. Avevo fatto veramente poca strada quindi, senza tante lamentele, faccio inversione, rientro nella via, parcheggio sul marciapiede perché è l’unico spazio disponibile – tanto ci metto un minuto – apro il cancelletto, prendo le scale e torno dentro casa. Afferro gli occhiali, detto, fatto, sono di nuovo in direzione ufficio.
Occhiali
Il tempo era comunque contato non dovevo perderne altro. Arrivo al parcheggio antistante il centro direzionale, scendo dall’auto, faccio le scale fin al secondo piano e percorro il corridoio. Intanto frugo nella borsa per afferrare le chiavi. Non sento le chiavi. Rimescolo ancora, apro le tasche, ma niente chiavi. Mi scappa una mezza imprecazione e mi metto a pensare. No, non sono rimaste a casa anche quelle, ne sono certa. Quindi? Dove sono?
Un minuto di cervello che frulla e ci arrivo. Sono rotolate fuori dalla borsa quando mi si è capovolta sul sedile a seguito della frenata, un tantino brusca, che avevo dovuto fare per far passare il ciclista che aveva candidamente deciso di attraversare. Sì, era andata sicuramente così. Ok, nessun problema, dovevo solo ridiscendere i due piani di scale e tornare in macchina. Lo feci. E le chiavi stavano effettivamente lì sotto il sedile. Bene. Non rimaneva che risalire, entrare in ufficio e prendere ciò che mi serviva, le mail avrebbero aspettato.
Guardai istintivamente l’orologio, c’era ancora il tempo per il caffè. A passi veloci affronto i gradini e mi perdo nell’organizzazione mentale del lavoro del pomeriggio, quando sarei stata di ritorno da Chioggia. Non mi rendo conto che esagero con le scale se non quando arrivo davanti alla porta che da sul tetto del condominio. Ma che cretina, mi dico, e lo faccio non solo mentalmente ma anche con un buon sonoro. Altra mezza imprecazione, giro di tacchi, due rampe di scale in discesa e finalmente sono davanti alla porta dell’ufficio con le chiavi in mano.
Apro, entro, mi dirigo alla scrivania, scelgo i documenti utili per la giornata, li infilo nelle cartelletta e subito in borsa. Prendo il pc e mi scappa l’occhio sul telepass, altro strumento indispensabile per il viaggio che avevo totalmente dimenticato di dover recuperare e di cui avrei sicuramente sentito la mancanza di lì a qualche decina di minuti in procinto di entrare in autostrada. Bene, mi dissi, siamo un po’ stanche in questo periodo… si vede… E meno male che il telepass ce l’ho qui davanti agli occhi così non lo dimentico. Ma per un istante, anziché allungare la mano per afferrarlo e mettere pure quello in borsa, torno a occuparmi del notebook con l’esigenza, non solo di portarlo con me, ma di verificare un impegno e una data e poi poterci ragionare una volta alla guida. Procedo e sondo l’agenda. Prendo nota mentalmente, chiudo tutto, metto in borsa. Infilo la direzione dell’uscita. Chiudo la porta, do un colpo di chiave all’ufficio e scendo di nuovo le scale.

Sono davanti all’auto, premo il telecomando per aprire la portiera e… zzo!!! No, non è possibile!!! Ma allora stamattina sono proprio rincoglionita del tutto! Il telepass è rimasto sulla scrivania… Sbuffo, sbatto la portiera per richiuderla, e mi sforzo di tener tiepido un nervosismo ormai elettrico. Mi giro di scatto e riaffronto per l’ennesima volta le scale. Impreco. Stavolta senza mezzi toni, e senza nemmeno assicurarmi che non ci sia nessuno in giro. Per fortuna è così. È ancora presto. Sono le 7.20 circa. Lo so perché riguardo l’orologio, immaginando che il caffè, se procedo di questo passo, conviene lo ordini a Chioggia e ora, recuperato il telepass, mi diriga direttamente in autostrada, qui a Verona Est anziché a Soave. Poi, man mano che mi lascio i gradini alle spalle e il nervosismo si affievolisce, mi dico che sono ancora in tempo e che mi voglio fermare a bere il caffè da mio fratello, che lo fa gran buono e perché ne ho voglia adesso e non fra un’ora e mezza buona. Finalmente, fatte e rifatte le scale, mi pare di aver preso tutto e mi siedo in macchina con il telepass in mano. Lo aggancio al velcro che sta posizionato sul parabrezza e parto.
Accendo la radio e provo a distrarmi. So che è veramente la stanchezza di questo periodo a provocarmi questi scherzi. Sono che non sono lucida e ho la testa piena di cose. Da fare, da risolvere, da affrontare. Pensieri, problemi, progetti. Il libro, Torino, la proposta per quel cliente della cantina biologica, il sito da mettere nelle mani di un nuovo fornitore, la lezione da preparare per sabato prossimo. E mi vorrei anche riposare un poco, svuotare la testa, alleggerirla almeno. Niente. È difficile, è il momento. Passerà… è quello che mi dico sempre. Perché non può andare sempre così. In verità potrebbe andare anche peggio. Ma a quell’evenienza non voglio pensare.
Dai sono arrivata in pasticceria. Ora mi gusto un caffè come si deve, poi il viaggio verso la laguna. È un paesaggio sempre ricco di fascino, non mi stanco mai di vederlo. La giornata promette bene, ci sarà una bella luce quando arriverò sul ponte che salda l’ingresso in Chioggia con il resto del Veneto. Me la godrò. Mi ripagherà dell’incazzatura mattutina per le mie scempiaggini.
Laguna 1
Fabio mi fa il caffè, mi chiede dove sono diretta. Mi parla mentre mette la tazzina sotto il gruppo della macchina del caffè. Mi dà le spalle. Io, che sono entrata dalla porta laterale, ho in quel momento lo sguardo puntato sulla porta d’ingresso principale. Al momento sono l’unica dentro il bar, ma capisco che sarà solo per qualche istante ancora. Due figure sono scese dall’auto e una delle due sta poggiando la mano sulla maniglia della porta. Ora sono entrambe dentro. Ho il riflesso della luce davanti a me, e qualche metro ci separa. Non riconosco nessuno dei due sul momento. Ma mi cattura la camminata del primo e il modo in cui si leva gli occhiali da sole. Sono due uomini. Il primo si chiama Nicola, il secondo non credo di averlo mai visto. Il primo si avvicina al bancone, quindi viene verso di me.

Ecco, mi mette a fuoco. Accenna un sorriso, dice un “Ehi… ciao…”. Mi è di fronte, è in imbarazzo. Scorgo un lieve rossore sotto il suo pizzetto. Il solito pizzetto, penso, non proprio aggiungo… ora è decisamente grigio, nemmeno brizzolato, piuttosto tanto grigio. Rispondo con un altrettanto: “Ciao… buongiorno…” Dura solo un istante ma lo colgo nell’indecisione di allargare il saluto con uno scambio di baci. Invece si ferma prima e mi passa una mano sull’avambraccio. Un misto di pacca sulla spalla tra camerata e una carezza affettuosa tra amiche. Poi c’è qualche istante di nulla. Di sospensione. Eccoci, ora entrambi proviamo a recuperare qualche parola. E quelle poche, ci escono in simultanea e ci inciampiamo addosso.
“Ma quanto tempo è che…” “Da quanti anni non ci si vede…” ci sorridiamo a vicenda. L’imbarazzo pian piano si scioglie. Chissà quante altre cose vorremmo dire. Non le diciamo. Però abbandoniamo le formali espressioni in italiano e scivoliamo nel nostro dialetto. Le tre battute che ci scambiamo servono a constatare che stiamo bene, sufficientemente almeno, che il lavoro non funziona granché ma teniamo duro… che sì un buon caffè il mattino è indispensabile per mandar giù il sonno e spalancare la giornata.

caffeAnche Nicola ordina caffè. “Due lisci come al solito”, dice a mio fratello, calcando sulla famigliarità che ha con il luogo e la situazione. Due perché l’altro è per il suo collega che ha fatto sosta al tavolo concedendoci un angolo di privacy. Mio fratello pure, dopo avere poggiato la mia tazzina sul piattino che già stava davanti a me sul bancone, ha fatto qualche passo laterale e si è concentrato sui successivi due caffè. Ha trattenuto chiacchiere e spiritosaggini del suo consueto repertorio. Lodevole, conoscendolo.
Poche altre parole ci siamo detti nella luce trasparente del mattino che camuffava i turbamenti e trasportava la memoria indietro negli anni. Sorseggiavamo il caffè, l’aroma scivolava tra la lingua e il palato. Non ho saputo evitare il pensiero della sua lingua quando si infilò nella mia bocca in un’estate veramente remota. E fu la prima. E fu strana quella sensazione, mista di piacere e stupore. Di pensieri e azioni infantili che volevano già essere grandi.
Il mio caffè era finito. Stavo ascoltando le sue parole, mi diceva dei suoi prossimi impegni musicali. Rispondeva a una mia domanda, ero curiosa di sapere. Mi confermò. Era come se nulla fosse cambiato. Allora come adesso la musica e il rock rimanevano capisaldi delle sue passioni. Energia per la mente e per la voce. E forse per la vita. In macchina, poco dopo, avrei ritrovato il ritmo del suCassetta TDKo canto che trasformava in note quelle mie frasi scritte.chitarrista

Anche per me, allora come adesso, alcune cose non erano cambiate. Scrivevo prima e scrivo ancor oggi. Il ricordo di quella mia lettera di allora, dove a diciotto anni gli dicevo addio e lui la mise in musica e l’arrangiò con la sua chitarra, mi accompagnò per l’intero viaggio. Sprazzi di testo mi tornavano in mente, la sua voce bassa che li cantava. Una pessima registrazione casalinga su una TDK da 60’. Un esemplare di tecnologia archeologica che, oggi, pur disponendone non si saprebbe in quale sportello infilare per ascoltarne l’inciso. Quegli anni lontani corsero veloci nella mia testa. Fino alle prime striature di cielo sciolte nell’allungo di acqua commista a terra e mare. Lì dovetti fermarmi, scendere dall’auto e fare un respiro profondo. Verso il mare che si apriva. Verso sensazioni che mi portavano indietro negli anni e mi restituivano un sapore di infanzia e adolescenza che non avevo più ritrovato.

Laguna
Mi congedai con un gran sorriso, sincero, perché mi venne così. Spontaneo, senza sforzo. Gli carezzai il pizzetto con gli occhi e immaginai di sfiorargli le labbra con l’indice della mano destra. Erano labbra sottili e non mi erano mai piaciute particolarmente. Anche lui ne conosceva i limiti e al contempo elargiva apprezzamenti per le mie, carnose e piene. Labbra da baciare, diceva.
La mattina lavorativa trascorse. Non so dire come. Mi trattenni fin verso le tredici, poi ripresi la strada in direzione opposta, verso ovest. Nei centocinquanta chilometri che mi separavano dall’ufficio ripiombai a gran forza nelle sensazioni del mattino. Tutto questo per soddisfare la voglia di caffè, mi dissi. Un caffè eccezionale. Una coincidenza eccezionale, che ha saputo farsi strada e cogliere l’istante propizio nonostante – o più probabilmente grazie – ai numerosi intoppi accaduti. Un tuffo nei quindici anni quando ormai davanti agli occhi si spalancano i cinquanta. Un’impronta di laguna nel cuore.