In treno. Di ritorno da Torino. Ripenso al motivo del mio viaggio, all’incontro avuto, all’intensità della giornata. Mi dico che c’è sempre da imparare. Non si finisce mai, di conoscere, capire, apprezzare le competenze di altri, i loro mondi. E le porte che possono aprire. Dentro la fatica questa constatazione diventa soddisfazione. E mi appaga. Nelle prossime settimane saprò se fatica e soddisfazione produrranno il risultato sperato. Intanto viaggio e cullo pensieri positivi.
La vista laterale dal finestrino mi regala l’ultimo sole. Luce rossa accesa sulle Alpi maestose che corrono con me. Innevate, ma solo sulle cime. Suggestive e avvolgenti. Cingono la prima capitale d’Italia, mentre la perdo alle mie spalle.
La mia carrozza è semivuota, mi allargo nel posto accanto e in quello di fronte. Imbandisco il mio tavolino e gli altri vicini. Spargo libri, tablet, bottiglietta dell’acqua, quaderno di appunti, smartphone, … Occupo spazio, apparecchio per me e intanto lascio vagare la mente.
Santhià, Olcenengo, Ponzana, Novara, Trecata, … Scorrono stazioni che per me sono solo nomi. Tranne Vercelli dove abita il mo amico Davide. Tutto il resto sono terre che non conosco. Anonimi punti sulla tratta ferroviaria. Quanta Italia mi manca all’appello. In lungo e in largo mi sono mossa, ma non basta per coprire tutto. È una conoscenza a groviera. Tanta storia ancora da capire, tante storie da ascoltare. Me lo ricorda “Come cavalli che dormono in piedi”, il libro di Rumiz che ho sotto gli occhi. Potente narrazione di frangenti della Grande Guerra sconosciute ai più, me per prima. Didascalie e vicende, umane e militari, di un’Europa di mezzo totalmente assenti dai libri di storia, e probabilmente ignorate anche da parecchi studiosi di professione. Chiudo a pagina 78 e torno a buttare gli occhi oltre le rotaie. Da ovest a est, la metropoli è vicina. l profili oltre il vetro sono lampanti, nonostante il buoi sia ormai calato.
Poco ancora e lo sferragliare dei binari, la combinazione di traversine e scambi rumorosi annuncerà l’ingresso in stazione Centrale. Il muso della Freccia penetrerà la monumentale galleria che si chiude con l’origine dei binari. Devo cominciare a radunare le mie cose. La tranquillità della prima metà del viaggio sta lasciando il passo al formicolio dei pendolari del venerdì sera. Lo conosco bene. Praticato per anni, non si scorda.
Qualcuno scende. Immediatamente dopo si rovesciano dentro facce trafelate, ma rassicurate di studenti e professionisti in erba. Trolley e sacche sulle spalle. Risvegliano il treno, tanto è sempre giorno in Centrale. Prendono posto, avvisano casa del loro arrivo. Probabilmente assaporano la cena preparata da mamma e la serata con gli amici. Segni distintivi di un’italianità che si compie nel rito settimanale.
Rumiz, le storie di Galizia, e gli italiani d’Austria spediti al fronte russo nel ’14, dovranno aspettare. In mancanza di silenzio non so leggere. Farò altro e coglierò il brulicare delle voci sullo sfondo. Un termometro sociale di progetti e ambizioni, fatiche e delusioni. Dei giovani del nord Italia con innesti di accenti un po’ fuori mano. Vanno tutti più a est di Milano, il treno fa capolinea a Venezia.
Davanti a loro capeggiano laptop e tablet. In mano tutti stringono cellulari e smartphone. Telefonate che riecheggiano in lingua, distinguo l’inglese e lo spagnolo, ma più dietro qualcuno usa un idioma dell’est. Un altro segno dei tempi, sconosciuto ai miei. Un gruppetto racconta degli Stati Uniti, meta della primavera prossima. Un assaggio per progetti futuri, un’apertura facilitata dall’università. Entusiasmo palpabile. Sogni che potrebbero farsi realtà.
Le voci sono tante, perlopiù concrete e propositive. Mi piace quello che sento, sa di speranza. Mi si forma una bella immagine davanti gli occhi: vedo giovani con il cuore in Patria (le parole di Rumiz mi gravitano ancora nelle orecchie), che pensano e progettano nell’orizzonte europeo e ambiscono a portare i loro passi oltre Oceano.
È l’Italia che avanza e che cresce. Non solo germogli, ma arbusti in aperta sfida. Dobbiamo proteggerne le radici e farne esplodere la chioma. Senza riserve. Per l’Italia di domani, che è già qui oggi.
Si aprono le porte, scendo. A Verona, la più bella città d’Italia!