Di nuovo birra. Sempre con Slow Food

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Scritto da: stefania

Che strane coincidenze: io frequento il master Slow Food Birra e mio fratello decide di piantare luppolo. Mi dice che il PSR (Piano di Sviluppo Rurale) della Regione Veneto finanzia progetti di imprenditoria agricola volti allo sviluppo di nuove colture. E che, per una serie di ragioni e di valutazioni, lui parteciperà con l’idea di avviare la coltivazione del luppolo in quei della Val d’Illasi. Interessante, rispondo io.
Poi vorrei fargli tutta una serie di domande sulla redditività dell’iniziativa, sul mercato del luppolo in Italia, sulla sua personale conoscenza delle tecniche di crescita della pianta, sulla sua resa e sui tempi utili per il primo raccolto, e altro ancora. Invece sprigiono il mio miglior tono entusiastico e dico: FANTASTICO!
Mi viene spontanea questa espressione… Probabilmente perché sto frequentando il Master sulla birra di SlowFood. Praticamente ci facciamo 5 birre a sera. Per 4 lezioni. Di cui io ne riesco a prendere solo 2. Purtroppo. Sì certo che è interessante… E, non “si beve”, ma si degusta. Vari tipi di birra. Siamo a Pastrengo presso il birrificio Amaldi, un micro-birrificio artigianale. Ci sono dei docenti che spiegano le tecniche di produzione e le tecniche di degustazione. E noi beviamo. Anzi, no, scusa… degustiamo!

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La schiuma, il colore, i profumi, gli aromi. E poi c’è il luppolo! Ok, anche prima di fare il corso sapevo dell’esistenza de luppolo e del suo ruolo nella produzione della birra: un ingrediente fondamentale. Ma ignoravo fosse l’elemento che ne determina il grado di amarezza. Ignoravo pure la “forma” del luppolo e l’altezza – notevole – raggiunta dalle piante. Cinque, sei metri, anche otto per alcune varietà. È un rampicante, che si taglia alla base al momento del raccolto e ricresce alto-alto l’anno dopo. Internet ha colmato immediatamente la mia ignoranza e mi ha fatto dire: Ah! Quello è il luppolo? Bene: ho dato il nome a un frutto visivamente noto, ma geneticamente sconosciuto.
E poi ‘sta cosa delle IBU. Curiosa. E di nuovo scopro cose nuove. Che l’amaro si misura! I birrai utilizzano questa particolare unità di misura per decretare il livello di amarezza del loro prodotto. Quindi, dall’equilibrio tra orzo, malto e luppolo scoppia il tono di amaro e la birra ti si apre in bocca con carattere e personalità. Una differente dall’altra. Soprattutto se si tratta di 20160129_214024_resizedproduzioni artigianali e di in presenza di degni degustatori.
Il docente della seconda serata di Master è Gianluca Raccagni. Lui ci rivela tutte queste novità (per me, almeno) e ci introduce al ciclo produttivo della nostra bevanda. Poi arriva il momento dell’assaggio e ci presenta la prima bionda (in verità è una bianca) della serata. La ISAAC di Baladin.
È a base di frumento e ad alta fermentazione grazie ai suoi lieviti peculiari.

A noi non resta che affondare le labbra nella schiuma pannosa che si è stampata sul colmo del bicchiere, inspirare i sentori di frutta fresca e lasciar correre il liquido fresco nella trachea. Ahhhh! Ci voleva! Mi piace.

Gianluca pure ne prende un sorso e nel frattempo non perde un colpo e prosegue nell’illustrazione di come si fa la birra.  Ogni tanto  inserisce qualche chicca sulla sua personale birra, cioè su quella che lui si prepara a casa. Ne va orgoglioso, si sente, ma ammette anche gli ambiti margini di miglioramento che riscontra. Ok, è giunto il momento della seconda birra. Si chiama KAPUZIN. Ha certamente più corpo della prima, un aroma speziato dovuto ai lieviti utilizzati e sentori di chiodi di garofano e banana. Colore oro ambrato. Sì, mi gusta pure questa.

Abbiamo ingranato con gli assaggi e quindi, doverosamente, occorre ingerire anche qualcosa di solido. Ci pensa Mario Amaldi, il birraio. A seconda della scelta fatta ci spetta un piattino con speck e schüttelbrot (pane di segale tondo e secco, aromatizzato con semi di cumino o anice), piuttosto che un’abbinata di formaggio morbido, brezel e cipolla rossa.

piatto speck

piatto formaggio e brezel

 

 

 

 

 

 

 

Ora l’attesa per le altre degustazioni cresce, e Gianluca la coglie tutta. Non si fa pregare, intercala sapientemente alcune slide illustrative con l’ingresso delle altre birre. Flavio Marchesini e Cristina Piazza i fiduciari della condotta Slow Food Garda Veronese promotori dell’iniziativa, sono solerti supporter e mettono in tavola le nuove bottiglie. È la volta della DUCHESSA, Birra gel Borgo. Questa è a base di farro, color oro deciso, con schiuma poco persistente. Decisamente corposa.

Il 20160129_215101_resizedchiarimento sulla pastorizzazione, che Gianluca sta spiegando anche a seguito della domanda di un partecipante, mi resta impresso. Il processo in20160129_221206_resizeddustriale di pastorizzazione, necessario alla conservazione della birra, ne blocca definitivamente l’evoluzione. Si beve quindi un alimento biologicamente “morto”. Ma pensa te, mi dico, io questa cosa mica la sapevo. Invece, le birre artigianali, non pastorizzate, sono “vive” e mutano, quindi il contenuto della bottiglia, nel tempo, non è mai identico. Il prodotto è organico ed evolve.

Intanto davanti a noi viene posata la quarta bottiglia della serata: una monastica CHIAMY. La cosiddetta birra trappista.  La punta amara si sente e, appunto per questo, io la trovo meno piacevole delle precedenti. Nonostante ciò, scivola con gradevolezza.

Prima di aprire all’ultima degustazione Gianluca ci fa riflettere sulla sostenibilità – da un punto di vista ambientale – delle produzioni artigianali su piccola scala. Decisamente qui la lancia va spezzata a vantaggio dell’industria. Il consumo di acqua nei micro e piccoli birrifici è di 1 a 10, contro 1 a 6 su scala industriale. Una differenza da considerare. Vale altrettanto per il dispendio di energia elettrica: vince la produzione che fa i numeri.

Con l’ultima bevuta il pensiero si aggancia a un libro, simpatico e intrigante, e piccolo, di Philippe Delerm.Libro la prima sorsata

La prima sorsata di birra. E altri piccoli piaceri della vita”. Lo consiglio a tutti gli appassionati di birra e di lettura: è una chicca!20160129_223027_resized

Invece quest’ultima che ci versiamo nel calice
e dopo attento esame portiamo alla bocca, è una BOCKBIER. Suscita interesse, ma personalmente la trovo un po’ stucchevole, sa di caramello tostato. Potrebbe essere da meditazione, sorseggiata con calma tra uno stuzzichino e l’altro, bella fredda. Sempre e solo in ottima compagnia!